Abbiamo a disposizione una quantità di contenuti che non ha precedenti nella storia dell’informazione, eppure leggiamo solo quello che ci conviene.

Pubblicità o notizia?
Le dinamiche dei nuovi media, unite alle esigenze commerciali, hanno stravolto le redazioni contaminando le logiche di diffusione dei contenuti informativi. Un discapito per tutti.
Inoltrandoci nell’era di Internet abbiamo sentito spesso parlare di democratizzazione dell’informazione, non più appannaggio dei mass media, ma soggetta a una contaminazione dal basso che vede le persone co-protagoniste della diffusione di notizie su larga scala.
Di pari passo, abbiamo assistito a una crisi dell’editoria, ancora in corso, che a partire dal piano commerciale si è estesa a quello etico e deontologico. Il giornalismo vive oggi una tensione tra la vocazione a informare i cittadini e la necessità di sostenersi economicamente attraverso la pubblicità.
L’industria delle notizie si è dovuta adeguare alle regole imposte dal capitalismo e alla lotta per la sopravvivenza alimentata dall’affollato contesto digitale. Molte testate web offrono gratis i propri contenuti finanziandosi con la pubblicità online; altre, per lo più specializzate, propongono solo contenuti a pagamento; altre ancora hanno optato per una forma ibrida.
Inizialmente, le redazioni hanno ridotto i costi tagliando il personale, ma spesso non è stato sufficiente; così, magari a malincuore, hanno lasciato che la pubblicità occupasse sempre più spazio, togliendone ai contenuti giornalistici, cambiandoli e mescolandosi con essi fino a confondersi.
Pubblicità travestite da notizie
È stata prima la pubblicità a travestirsi da notizia: il native advertising, o pubblicità nativa, ha assunto la forma del contenuto giornalistico, dal punto di vista sia grafico sia editoriale, ed è concepita per catturare l’attenzione dell’utente interessato a informarsi. Queste pubblicità sono sempre accompagnate dalla dicitura ‘contenuto sponsorizzato’, anche se alcuni studi hanno dimostrato che, nonostante questa forma di trasparenza, sono pochi a distinguerle chiaramente.
Più articolato è il sistema del programmatic advertising, o pubblicità computerizzata: assume lo stesso aspetto della pubblicità nativa, dunque del contenuto giornalistico, ma mostra in maniera automatica all’utente il contenuto potenzialmente più interessante per lui. Come fa? Analizza i dati personali: avvalendosi di complessi algoritmi, studia i comportamenti dei consumatori online per individuare la pubblicità più adatta in quel momento per quel tipo di target.
Tanti sono i vantaggi della pubblicità computerizzata rispetto a quella nativa: si aggiorna in base a chi visita il sito su cui è ospitata, è più abile nell’attirare l’attenzione del lettore perché creata sui suoi interessi, ha meno costi ed è più efficiente.
Notizie travestite da pubblicità
E se il prodotto da vendere diventa la notizia? Succede quando, appunto, i giornali si reggono grazie agli introiti della pubblicità e hanno bisogno di traffico sul sito per garantirsi sufficienti profitti. Ecco che molte testate giornalistiche tendono a veicolare, soprattutto sui social network, contenuti in grado di attirare un gran numero di persone sulla propria piattaforma per far salire il prezzo degli spazi pubblicitari.
Spesso, la conseguenza di tale necessità è che vi è un gran proliferare di articoli scritti unicamente con questo scopo, testi che sacrificano la qualità a favore dell’originalità, della tempestività e del sensazionalismo, tanto che il giornalista si trova spesso a vivere una sorta di crisi interiore: rimanere fedele alla corretta informazione o inseguire obiettivi commerciali?
Per sopravvivere, il business dell’editoria è costretto a remare contro se stesso. Questo modello finanziario non è compatibile con il giornalismo di qualità, investigativo e di approfondimento. Tutto ciò reca un danno ai cittadini, che perdono uno strumento di grande importanza per la formazione dell’opinione pubblica, ma anche delle stesse testate giornalistiche che perdono la fiducia dei lettori a favore dei profitti pubblicitari.
Le notizie che viaggiano sui social
Le tecniche per attirare utenti sul sito hanno trovato nella tecnologia un valido alleato. Uno dei modi più semplici e immediati per alimentare traffico sulle testate editoriali è diffondere negli spazi online più affollati, dunque i social network, titoli sensazionalistici che auspicano la viralità.
Molti giornali preferiscono proporre tanti articoli ‘usa e getta’ piuttosto che approfondimenti utili all’opinione pubblica. Per ottenere viralità, infatti, si fa leva sulle emozioni viscerali, sfruttando contenuti polarizzanti che vengono condivisi dalle persone sull’onda di un impulso che non fa che alimentare contrasti e dissidi sociali.
Articoli di questo tipo assecondano la tendenza degli utenti a definire la propria identità mediante la condivisione di post sui profili personali, a manifestare il proprio pensiero rispetto all’argomento in voga, spesso senza verificare la correttezza dell’informazione stessa. Da qui il problema delle fake news, che rende ancora più evidente quanto sia grande il rischio di disinformazione.
Si sa, il business di Facebook si regge sulla pubblicità. Negli ultimi anni il social network ha affinato diversi strumenti per gli editori e gli inserzionisti in genere, si pensi per esempio agli Instant Articles e, soprattutto, alla possibilità di caricare elenchi di contatti acquisiti, di creare pubblici personalizzati e simili. Questo ha spostato il focus degli investimenti verso i dati personali degli utenti, preziosi per le testate online che vogliono attirare il target più interessato ai propri contenuti.
Perciò, è sempre più forte la tendenza ad acquistare traffico pagando Facebook per i post, sia promozionali sia giornalistici, che rimandano al proprio giornale online. I social network hanno, dunque, un ruolo fortemente condizionante sulla diffusione delle notizie: la maggior parte degli utenti acquisisce informazioni esclusivamente dal proprio newsfeed di Facebook, dove le tematiche sono suggerite dai propri interessi e comportamenti online. Il materiale informativo offerto su questo tipo di piattaforme sociali alimenta le credenze preesistenti nel lettore, piuttosto che favorire il dibattito tra punti di vista diversi e una sana contaminazione di idee.
Tale sistema economico favorito dalle logiche dei social media, dunque, incentiva gli editori a disseminare online contenuti di scarso valore perché più remunerativi, alimentando la sfiducia dei lettori verso la professione giornalistica e favorendo forme di tribalismo sociale.
Se da un lato il settore dell’editoria subisce passivamente tale fenomeno, che mina la deontologia e l’etica della professione, dall’altro neanche i lettori ne sono immuni. Grandi esperti si interrogano da tempo su come permettere che le testate giornalistiche sopravvivano all’attuale sfida economica. Dal nostro punto di vista, di lettori, utenti e consumatori, ciò che possiamo fare è innanzitutto renderci conto di essere, con i nostri dati, origine e bersaglio di tali dinamiche e, per questo, è nostro interesse assumere un comportamento online consapevole, attento alle fonti a cui attingiamo le nostre informazioni e meno incline a condividere contenuti privi di valore.
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