La sfida per ogni nuovo brand è posizionarsi sul mercato ed entrare nella mente delle persone in modo stabile e duraturo. Fin qui niente di nuovo. E proprio questo è il problema.

Associazioni di marca: pensieri, emozioni, connessioni
Un messaggio pubblicitario con la giusta carica emotiva può contribuire a creare un forte legame tra brand, persone e mercato. In che modo? Ecco tre approcci diversi, ugualmente efficaci.
Le attività di comunicazione e marketing brand-oriented, anche quando lavorano intorno al prodotto, sono tese a posizionare il brand sul mercato e nella mente dei consumatori. Un posizionamento solido e duraturo si ottiene creando forti associazioni positive tra la marca e la categoria merceologica a cui appartiene, le quali, a loro volta, sono intimamente legate alle connessioni emotive che si stabiliscono tra il brand e il suo pubblico.
Una marca è ben posizionata sul mercato quando le persone la riconoscono e la associano spontaneamente allo specifico settore in cui opera; è ben posizionata nella mente dei consumatori quando esiste un legame profondo che allinea i valori, le aspirazioni e i bisogni di entrambi.
Le associazioni di marca si creano a partire dalla definizione dell’identità del brand e del suo patrimonio valoriale, ma è attraverso la comunicazione e il marketing, e in particolar modo grazie alla pubblicità, che prendono forma, raggiungono il pubblico e si consolidano sul mercato.
Secondo la distinzione operata da Gianandrea Abbate, esistono tre modi per generare associazioni positive tra la marca e la sua categoria merceologica mediante un messaggio pubblicitario, che fanno leva su tre diversi tipi di connessioni emotive:
- il pensiero per riflesso condizionato o automatico;
- il pensiero proiettivo o disruptive;
- il pensiero in overflow o in overdisruption.
Pensiero per riflesso condizionato o automatico
È un meccanismo mentale che sfrutta il principio associativo emozionale collettivo. Si tratta di usare, nel messaggio pubblicitario, sostantivi o aggettivi che appartengono alla stessa area emozionale del brand, dell’azienda o del prodotto per connetterli al settore di riferimento. In tal modo si ottiene un’elevazione emozionale attraverso una ridondanza cognitiva che enfatizza l’associazione da parte del pubblico.
Chiariamo il concetto con qualche esempio.
“Ciobar” è un naming che utilizza il principio associativo per creare una relazione tra prodotto e mercato: evoca l’idea di cioccolata da preparare a casa buona come quella del bar.
Il nome “Duracell” lavora allo stesso modo, poiché rimanda al concetto di batteria dalla lunga durata.
Altri esempi si trovano all’interno delle campagne che pubblicizzano il caffè che piace ai napoletani, il the più bevuto dagli inglesi e il detersivo che “lava così bianco che più bianco non si può”.
Il pensiero per riflesso condizionato o automatico fa leva sulle tautologie, sulle associazioni paradigmatiche e sugli stereotipi come potenti veicoli comunicazionali capaci di intercettare i desideri collettivi dei consumatori. In pratica si punta a comunicare alle persone proprio ciò che loro si aspettano gli venga comunicato, sempre che lo stesso sistema non sia stato già impiegato da qualche concorrente.
Usare termini e concetti molto vicini alla categoria merceologica per comunicare la marca può rivelarsi davvero vantaggioso, a patto di non scadere nel banale e di non perdere di specificità.
Pensiero proiettivo o disruptive
Mentre il meccanismo precedente opera sulla somiglianza, l’eguaglianza e la connessione automatica tra contenuto pubblicitario e mercato di riferimento, la disruption sfrutta il principio dissociativo: la tensione emozionale viene creata per differenza, per opposizione.
Invece di agire sulle aspettative del pubblico, si lavora sulle “non aspettative coscienti” che tuttavia sono latenti e potenziali. In sostanza, si punta all’effetto sorpresa, producendo un microshock emotivo che scaturisce dall’associazione tra il brand e un’aggettivazione che risulta inaspettata.
Vediamo alcuni esempi.
Un celebre claim di una famosa marca di camicie degli anni 80-90 recitava: “Proprio una camicia coi baffi”, in cui c’è l’associazione tra il prodotto (la camicia) è un termine (i baffi) insolito per la categoria merceologica di appartenenza.
Altre forme di rotture inattese le possiamo trovare nelle pubblicità del caffè servito in paradiso, del rum “più bevuto nei peggiori bar di Caracas” o della candeggina che “smacchia a fondo senza strap”.
Il pensiero proiettivo o disruptive mira alla costruzione di una promessa pubblicitaria che riesca a sorprendere, a incuriosire, a strappare un sorriso, a suscitare un’emozione imprevista. Lo scopo è generare un salto cognitivo improvviso e inatteso che risulti al contempo distintivo e differenziante.
Per essere davvero efficace, è importante che la disruption abbia la giusta carica emotiva e che rientri nei parametri di coerenza comunicativa del brand, altrimenti si corre il rischio di realizzare un messaggio con poco slancio, incompiuto o slegato dagli obiettivi della marca.
Pensiero in overflow o in overdisruption
Questo approccio punta a produrre uno shock emotivo derivante da un eccesso di disruption. La comunicazione risultante presenta in genere forti caratteristiche di impatto, istintività e provocazione. L’effetto che si desidera ottenere è una marcata reazione emotiva che porti il messaggio a superare la soglia d’attenzione del pubblico: un messaggio in grado di farsi notare e ricordare.
Esempi famosi sono le controverse campagne pubblicitarie di Oliviero Toscani, in particolare quelle realizzate per Benetton, caratterizzate da toni crudi, provocatori e anticonformisti.
Il pensiero in overflow, usato per costruire associazioni di marca per mezzo della pubblicità, non è esente dai rischi legati all’esagerazione, all’aggressività e all’esasperazione del contenuto: sono pubblicità che si amano o si odiano, ma di certo non lasciano indifferenti.
Evitare il nulla emozionale
Qualunque criterio si decida di adottare per connettere brand, persone e mercato, bisogna scongiurare una situazione percettiva tipica di molte pubblicità: l’incompiuto cognitivo. Si verifica quando il messaggio è privo della carica emotiva necessaria a suscitare una risposta adeguata nelle persone. In questi casi si parla anche di blackout o crash emotivo.
Una comunicazione del genere risulta inefficace perché scollegata, disconnessa dalla marca e dal pubblico. La mancanza di associazioni semantiche pone i destinatari del messaggio in una condizione di confusione e di smarrimento; al peggio, può dare inizio a una crisi di identità e mettere a repentaglio il posizionamento del brand.
Punti di vista